Attacchi di panico. Sintomi e cura

Cosa sono gli attacchi di panico? Quali sono i sintomi degli attacchi di panico?
L’attacco di panico può essere definito come unostato d’ansia intenso e acuto, di durata breve, ma molto grave, durante il quale si sperimenta una sensazione di catastrofe imminente, paura di impazzire, di perdere il controllo, di svenire o di morire, accompagnate da sintomi come tachicardia, dolori al petto, sensazione di soffocamento, sensazione di confusione, vertigini, difficoltà di deambulazione, forte sudorazione, nausea e brividi.
Ogni attacco ha durata variabile, da pochi minuti ad un’ora, ed è seguito da un forte senso di malessere, disagio ed apprensione.
Può accadere che le persone sviluppino anche la paura degli attacchi di panico, trovandosi letteralmente a vivere  nel terrore che l'attacco di panico si ripresenti.
Gli attacchi di panico possono essere associati ad agorafobia.

Quali sono le cause degli attacchi di panico?

Le origini dell’attacco di panico si trovano in molti fattori, alcuni che riguardano la propria infanzia e altri che invece continuano ad agire nel presente.
E’ importante non sottovalutarli e prendere subito dei provvedimenti seri perché gli attacchi di panico sono segno di un malessere profondo, come per esempio una situazione familiare difficile da gestire, un serio problema sul posto di lavoro o qualcosa che ha riaperto una ferita antica.
Come curare gli attacchi di panico?

Ogni persona è diversa dalle altre perciò non si può parlare di una terapia standard valida per tutti.
La persona vittima degli attacchi di panico deve richiedere l’intervento di uno psicologo che, dopo una valutazione attenta, capirà qual è la terapia migliore per quel paziente. 
In generale, la terapia può andare dal sostegno psicologico fino al lavoro d’equipe con uno psichiatra, quando sono necessari gli psicofarmaci.

Ovviamente gli psicofarmaci devono essere utilizzati sempre sotto la guida di uno psichiatra (che è l’unica figura che può prescriverli!) e non devono essere considerati sempre come la migliore cura al disagio psicologico. Essi, infatti, possono avere degli effetti sui sintomi, ma non sulla causa della sofferenza delle persone.


14 curiosità sulla mente che ognuno dovrebbe sapere

1. La tua canzone preferita è probabilmente associata ad un evento importante.

Le tue preferenze musicali dipendono dal contesto in cui ti trovi.

2. La musica influenza la tua prospettiva.

Uno studio dell’università di Groningen ha mostrato che la musica influenza significativamente la tua percezione.

3. Più dai agli altri, più sei felice.

Lo dimostrano diversi studi. Assicurati di dare tanto quest’anno.

4. Spendere soldi per fare esperienze rende più felici di spendere per avere cose.

Raccogli ricordi, non oggetti.

5. I bambini di oggi sono più irritabili e tesi della media dei pazienti psichiatrici del 1950.

E’ triste. Circa metà della popolazione mondiale soffre di ansia, depressione, o di abuso di sostanze.

6. Alcune pratiche religiose riducono lo stress.

Secondo l’America Psychiatric Association le persone che praticano meditazione o preghiera sono meno stressate.

7. I soldi non fanno la felicità, ma solo fino a 75000 dollari l’anno.

Secondo la maggioranza degli americani un guadagno di 75000 dollari l’anno, circa 65000 euro, garantisce la felicità.

8. Trascorrere tempo con persone felici ti rende più felice.

Non è una gran sorpresa. Che aspetti?

9. Le persone più stressate della terra hanno tra i 18 e i 33 anni.

Famiglia, scuola, lavoro. Possono essere davvero stressanti.

10. Convinciti di aver dormito abbastanza e il tuo cervella  crederà che è vero.

Ti darà più energia. L’effetto è noto come “placebo sleep”.

11. Le persone intelligenti si sottovalutano e le persone ignoranti pensano di essere brillanti.

E’ chiamato l’effetto Dunning Kruger. Basta andare su facebook per capire di cosa sto parlando.

12. Quando ricordi un evento passato, in realtà  stai ricordando l’ultima volta che lo hai ricordato.

Ecco perché i tuoi ricordi sono spesso distorti.

13. Le tue decisioni sono più razionali quando pensi in un'altra lingua.

Uno studio dell’Università di Chicago ha mostrato che i cittadini coreani commettono meno errori se pensano in una lingua diversa dalla loro.

14. Se annunci i tuoi obiettivi, avrai meno probabilità di successo.

Amici iettatori? No. Dire agli altri i tuoi obiettivi ti gratifica quasi quanto averli raggiunti e riduce la tua motivazione a lavorare duro per farlo davvero.

Fonte:
http://higherperspectives.com/psychology-facts/

La differenza tra agire ed essere agiti

Siamo agiti... Da cosa?

Siamo agiti da schemi che abbiamo silenziosamente assorbito, inconsapevolmente imparato.

Sono entrati, gli abbiamo aperto la porta di casa... E si sono stabiliti lì, sul divano, coperti dal plaid.

Ci agiscono. Quando ci arrabbiamo, quando non sappiamo dire no, quando non sappiamo lasciar andare.

Non li sentiamo ma possiamo vederli se facciamo attenzione. Attenzione!

Dovremmo ripetercelo spesso: "Attenzione!".

Quando abbiamo imparato a fare attenzione possiamo iniziare a giocarci, magari chiedendogli: "Ma da chi ti ho preso?"

E poi si apre una porta...

Sopravvivere ai buoni propositi di gennaio (o settembre)

Sono sempre stato colpito dal fatto che il mese di gennaio (come quello di settembre) sia una specie di “attivatore” di buoni propositi. I gestori delle palestre lo sanno bene. Gennaio diventa la panacea di tutti i mali. Da gennaio si smette di fumare, si inizia la dieta, ci si iscrive al corso di pilates, si decide di dedicare un giorno alla settimana alle proprie passioni, di cambiare lavoro, di trovare lavoro... Si potrebbe continuare all’infinito!

A febbraio i meno determinati hanno abbandonato la nave. Qualcun altro a marzo. Solo pochi sopravvivono al mese di aprile.


Evidentemente deve esserci una propensione ad accompagnare ogni nuovo inizio con una serie di buoni propositi. Questo accade quando nasce una storia d’amore, quando si comincia un’attività lavorativa o si decide di dedicarsi ad un semplice passatempo. Poi succede che, misteriosamente, nella nuova storia d’amore si ripetono gli stessi schemi della relazione precedente, che il nuovo lavoro diventa noioso come quello che lo ha preceduto, che il nuovo hobby viene abbandonato come si è fatto con tutti gli altri.


Credo che tutto questo accada perché nell’essere umano esiste una specie di tendenza ad investire il “nuovo” di una serie di aspettative positive, senza fare troppo i conti con l’impegno necessario alla loro realizzazione.


Ma l’aspettativa e la realizzazione non vanno sempre a braccetto. Se esistono cose che si oppongono alla realizzazione dei nostri progetti, rispetto alle quali possiamo fare poco, abbiamo sempre dei margini di responsabilità in quello che desideriamo fare o, perché no, essere.


Se ci si ferma ci si rende conto che il nuovo anno, che era stato caricato di aspettative, si rivela più o meno una fotocopia di quello precedente. E si continua ad essere come prima e a fare ciò che si faceva prima, gli stessi errori, le stesse routine, le stesse abitudini.


E che fine hanno fatto i buoni propositi? Probabilmente sono stati messi in stand-by, inconsciamente rimandati al prossimo agosto.


Forse bisogna fare un po’ di pulizia... Anzitutto, capire che in questa sorta di “eterno ritorno dell’uguale” si ha certamente una qualche responsabilità. Gennaio è un mese come un altro e non c’è nessun motivo per cui dovrebbe essere quello della “volta buona”. Insomma, non ha nessun potere particolare. Che sia la volta buona lo decide in gran parte l’impegno che si riesce e si decide di mettere nella realizzazione di un certo progetto. Il punto sta proprio in questo. Quanto si è capaci di determinarsi? Di compiere una valutazione realistica dei venti favorevoli e capire quanto effettivamente l’impegno personale può misurarsi con le contingenze avverse?


La verità è che decidere di cambiare è difficile e cambiare è ancora più faticoso. Ma se cambiare è difficile, non cambiare può essere fatale, come disse Fred Allen. La notizia buona è che si può iniziare in qualsiasi momento, perciò non occorre abbattersi se già non si è resistiti al primo cioccolatino dell’anno.

Personalità e destino

Una domanda impegnativa: esiste il destino?

Sogni premonitori, segnali dal cielo, coincidenze che sono troppo strane. In un vecchio film si diceva che i segni sono ovunque, bisogna solo imparare a leggerli. Mi chiedo spesso come si fa ad imparare. E mi chiedo, ammesso che quelli che comunemente chiamiamo “segni” esistano, cosa ci dice che il modo in cui li interpretiamo sia corretto? E se fosse solo tutto il frutto di una suggestione? Se avessimo solo bisogno di credere in una forza, che di solito chiamiamo destino o fato, che ci spinge a scegliere delle strade e a scartarne altre? 
Può darsi… Ma a volte accadono cose che difficilmente si può riferire al semplice caso.

Per capire mi pongo allora una domanda: Perché la nostra attenzione è rivolta proprio all’oggetto che presto diventerà per noi un segno? Mi spiego meglio: perché tra le mille cose che ci passano sotto gli occhi ogni giorno, ci colpisce proprio quello che riteniamo essere un segno?


Credo che a questo proposito esistano almeno due modi di vedere le cose.

# Il primo. Nell’immaginario comune il destino - ciò che del nostro percorso è già scritto, come una biografia scritta a priori - agirebbe tramite una sorta di forza che interviene nei momenti delle scelte importanti, suggerendoci la strada giusta. Funziona più o meno in questo modo: accade che qualcosa attira la nostra attenzione e d’improvviso capiamo che quella cosa non è li per caso. Qualcuno o qualcosa ce l’ha messa li apposta. E’ quello che di solito viene chiamato “segno del destino”. E allora il più delle volte accogliamo il suggerimento e facciamo quella determinata scelta perché... “è destino”, appunto. Riflettiamo un momento su questa espressione: quando la utilizziamo stiamo dicendo che ogni cosa del mondo, ogni accadimento, ci spinge a fare quella certa cosa. Quella, non un’altra! E non potremmo fare altrimenti. E quando invece scegliamo una strada diversa che poi si rivela sbagliata ci dispiace di essere andati contro il nostro stesso destino, nonostante si fosse mostrato così nitidamente. 
A mio avviso, è questo il modo più comune di intendere il destino. Non è la sede per giudicarne la correttezza, ciò che posso dire è che pensarla in questo modo ha certamente alcuni vantaggi. Ci si sente meno soli, per esempio, e più sicuri. Avere il destino dalla propria parte (o essere dalla parte del destino, fate voi) rende un po’ meno complicato fare scelte difficili… Un bel sollievo dalla responsabilità, insomma.





# Il secondo. Forse ai romantici non piacerà. Ma, probabilmente, più che una biografia già scritta che agisce tramite una forza che ci spinge verso delle mete, il destino è proprio la forza stessa. Con la differenza che questa forza non viene dall’esterno, ma da dentro. Da desideri inconsci e disposizioni caratteriali, inconsce pure loro, a loro volta mosse da elementi di cui mi riprometto di parlare nella prossima puntata, che ci spingono ad andare verso un certo destino. Uno dei tanti possibili per ognuno di noi. 

Mi spiego meglio. Se a livello inconscio desidero ardentemente una cosa, beh, l’inconscio è abbastanza forte da portare l’attenzione a tutti gli oggetti che mi ricordano – a livello cosciente – quella cosa che inconsciamente desidero. Per questo mi capita avanti agli occhi proprio il quadro che piace alla donna che segretamente amo. Oppure vedo spesso persone che le somigliano. O, ancora, sento proprio quella canzone che mi fa ricordare di lei. Ma cosa decide su quale quadro o persona debbano fermarsi i miei occhi e su quale canzone le mie orecchie? 

Forse è difficile rinunciare all'idea di una forza esterna e rassicurante che ci spinge verso quello a cui siamo destinati. Ma credo che l'idea che il nostro destino sia determinato da qualcosa che ci abita, che seppur non conosciamo bene fa pur sempre parte di noi, sia molto più autentica e anche più affascinante. E perchè no, altrettanto romantica.

Per ora mi fermo qui, ma ci sarebbe ancora altro da dire. Scriverò il resto nella seconda parte dell’articolo. 
Nel frattempo ricordo questa illuminante frase di Carl Gustav Jung: 

Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino”.

Psicologi in ospedale. Un volume per gli addetti ai lavori e gli appassionati



Un ospedale moderno è davvero attento ai bisogni emotivi di pazienti e familiari? Esiste un ospedale "psychologically correct"? Chi sono i medici, gli infermieri, i direttori, come persone, prima che come professionisti? A cosa serve uno psicologo in ospedale? Come si comporta un terapeuta familiare? Come ricordare che ogni ammalato ha una famiglia e che ogni malattia è sempre familiare, per impatto, ricadute e risorse? Tale consapevolezza come muta l'approccio operativo?

La medicina è sempre più personalizzata ed attenta ai bisogni soggettivi dei pazienti. Riconosce il ruolo dei fattori emozionali, psicologici, relazionali sul decorso delle patologie organiche come parti integranti del sistema-individuo. Scompare la concezione della malattia come singolo oggetto di cura a favore di un'ottica globale, in cui la relazione è il nodo centrale nei processi clinici. L'approccio sistemico appare necessario per governare il processo di umanizzazione delle strutture sanitarie.

Tale mutamento radicale - culturale, tecnologico e di politica sanitaria - trova però molte resistenze a tradursi in modelli operativi sistematizzati. Agli psicologi non spetta solo la cura degli aspetti emotivi, né possono da soli mutare il sistema ospedaliero, eppure il nostro contributo è imprescindibile.

Il volume "Psicologi in ospedale. Percorsi operativi per la cura globale di persone", ispirato da tali riflessioni, descrive le attività di psicologi in diversi reparti ospedalieri ed afferma il diritto ad una cura che comprenda anche la sofferenza psicologica. 

Curato da Alberto Vito, è rivolto a psicologi ma anche a medici, operatori e, altresì, a manager e direttori ospedalieri, per confrontarsi in un dialogo pluridisciplinare con un modello e un'esperienza operativa originale.


Di seguito l'indice:

Alberto Vito, Introduzione

Alberto Vito, Raffaella Cozzolino, La psicologia ospedaliera

Teresa Di Gennaro, Raffaella Cozzolino, I bisogni psicologici del paziente ospedalizzato e della sua famiglia

Andrea Cappabianca, Il ruolo della psicologia nell'umanizzazione delle strutture sanitarie e i rapporti con il volontariato

Lucia Alfano, Alberto Vito, L'evoluzione dell'assistenza psicologica al paziente Hiv positivo

Verbena Cucuzza, Federica De Angelis, Intervento psicologico in Terapia Intensiva Neonatale. La gestione della morte in T.I.N.

Rossana De Feudis, Le molteplici dimensioni della psiconcologia

Raffaella Manzo, Quando la psicologia incontra l'oncologia: quale relazione di cura?

Ilaria d'Alessandro, Teresa Di Gennaro, Il paziente laringectomizzato: aspetti psicologici e prospettive di intervento

Mariella Pratillo, Un cuore che cambia: implicazioni psicologiche del trapianto

Lucia Alfano, Ilaria d'Alessandro, L'intervento psicologico in riabilitazione cardiologica

Nicoletta De Stefano, Gelsomina Lo Cascio, L'intervento psicologico nella lotta al tabagismo in contesto ospedaliero

Ida Calamaro, Fabiana Gallo, L'attività di psicoterapia ambulatoriale in ambito ospedaliero

Fabiana Gallo, Ruolo e funzioni dello psicologo nella terapia del dolore e nelle cure palliative

Nicola Ferrari, In terra straniera. Il travaglio del lutto, la narrazione, l'ospedale

Roberta Vacca, Per una carta d'identità dello psicologo-formatore in ambito ospedaliero

Quello che i pessimisti non sanno.


«E’ meglio essere ottimisti e avere torto che essere pessimisti e avere ragione». Lo diceva Albert Einstein. 

Ma non è l’unico motivo per cui l’ottimismo può convenire. In questo breve articolo spiegherò il perché.
L’essere umano è naturalmente portato a fare previsioni più o meno probabilistiche sul proprio futuro, sulle conseguenze delle proprie scelte o delle proprie azioni.
Immaginare un quadro di quel che sarà può essere molto rassicurante. Ma la cosa più importante è che questo processo orienta le nostre azioni. 

L’analisi delle conseguenze di un dato comportamento, infatti, non può fare a meno di influenzare il comportamento stesso, sia dal punto di vista della sua messa in atto sia da quello della qualità dell’esecuzione. 

Mi spiego meglio con un esempio... 
Poniamo il caso di Aldo, che è innamorato di Lidia e si è finalmente deciso a fare la prima mossa. Ma è un pessimista ed è convinto che riceverà un rifiuto come risposta, magari per l’ennesima volta (si spera non sempre da Lidia). A questo punto, al nostro Aldo, potrebbero facilmente presentarsi due scenari:

1) Nel primo caso desisterà e tornerà a crogiolarsi nel suo dolore senza aver neanche provato ad avvicinare Lidia.
2) Nel secondo caso troverà la forza di avvicinarsi a lei, ma lo farà in modo impacciato, con insicurezza e sfiducia, tanto da aumentare le possibilità che il temuto rifiuto si verifichi. Anche in questo caso tornerà a crogiolarsi nel suo dolore.

La domanda è: Cosa sarebbe successo se il nostro Aldo fosse stato un po’ più ottimista? Se avesse messo da parte tutto e avesse semplicemente pensato: “Magari mi viene buona!”?

Gli psicologi chiamano questa strana cosa “profezia che si autoavvera”. I pessimisti che la scoprono dopo un po’ la dimenticano. 

L'insonnia

L’insonnia è una malattia spesso riconducibile ad ansia e stress dovuti alla difficoltà di gestione dei problemi della vita quotidiana o a periodi particolarmente “intensi” ai quali si reagisce utilizzando modalità disfunzionali. Si manifesta con difficoltà di addormentamento, risvegli notturni o risvegli mattutini precoci.
Nonostante il sonno sia influenzato anche da fattori ambientali, come la quantità di luce presente in una stanza o i rumori notturni, o dall’uso di  stimolanti come caffè o cacao, nella maggior parte dei casi il fattore più importante resta lo stress, che stimola il rilascio di ormoni che alterano il normale ciclo sonno-veglia.

E’ bene tenere presente che l’insonnia può essere transitoria ma può anche cronicizzarsi, configurandosi quindi come un problema di più difficile gestione.

Rimedi e cura.

Esistono alcune buone pratiche contro l'insonnia:
1- andare a letto e alzarsi sempre alla stessa ora, in modo da abituare il corpo e la mente a un certo ritmo;
2- evitare stanze troppo luminose e rumorose;
3- limitare il consumo di sostanze stimolanti, come caffè o cioccolato;
4- cenare non troppo tardi, nè fare pasti troppo abbondanti;
5- limitare la durata del pisolino pomeridiano a un massimo 20 minuti;
6- areare bene la stanza in cui si dorme;

Ricordiamo che i sonniferi non sono sempre trattamenti più efficaci contro l'insonnia. Offrono un tipo di sonno decisamente diverso da quello naturale e hanno sempre controindicazioni, come ad esempio farmaco-dipenednza. Contrariamente a quanto si pensi, inoltre, l’uso di sostanze alcoliche non facilita l’addormento, anzi, esiste un’ottima relazione tra alcolismo e insonnia.


Trattamento psicologico dell'insonnia.

Quando l’insonnia resiste a tisane e integratori o si è stanchi di non riuscire ad addormentarsi senza ausili esterni, conviene approfondire i fattori psicologici che la sostengono.
Il trattamento psicologico dell’insonnia è volto proprio alla comprensione di questi fattori. Consiste nell’approfondimento dei pensieri e delle emozioni che interferiscono con il normale flusso del sonno, nell’esplorazione dei problemi e delle risorse individuali e familiari che è possibile stimolare al fine di trovare nuovi modi per reagire allo stress.

Quante ore dormire per garantirsi un buon riposo?

Il sonno è un processo fisiologico regolato da una sorta di orologio biologico personale influenzato da fattori come l’alternanza luce-buio, i turni di lavoro, gli orari abituali dei pasti.
Il bisogno di sonno varia a seconda dell’età. Per i neonati è di circa 16-18 ore al giorno, dai sei mesi scende intorno alle 14-15 ore, mentre i bambini dai tre ai cinque anni dormono 10-12 ore per notte.
Il tempo trascorso a dormire diminuisce progressivamente durante l’adolescenza, fino a stabilizzarsi in età adulta intorno alle 7-8 ore. Il bisogno di sonno tende a ridursi negli anziani, che dormono circa 6-7 ore per notte e il cui sonno è molto più sensibile ai disturbi esterni e quindi più frammentato.

Il tempo consigliato dagli esperti per preservare la funzione ristoratrice del sonno e garantire il riequilibrio dell’organismo è di almeno 8 ore per notte. Lo confermano gli scienziati della University of Pittsburgh School of Medicine e della Western Psychiatric Institute and Clinic. La ricerca mostra che al di sotto di tale soglia possono insorgere problemi ai reni, ai polmoni, aumentano i rischi di ictus e attacchi cardiaci, si altera il normale metabolismo con un conseguente aumento della sensazione di fame e quindi del peso corporeo. Aumentano anche le possibilità di ammalarsi di tumore. E’ noto, inoltre, che una cattiva qualità del sonno indebolisce le difese immunitarie, rendendo l’organismo più vulnerabile ai virus influenzali.
Altre conseguenze sono le difficoltà di concentrazione, di memoria e di attenzione.

Cambiare abitudini alimentari. Il ruolo della psicologia

In Italia il 33% della popolazione è sovrappeso (il 41% degli uomini e il 25% delle donne) e il 10% della popolazione è obesa. Il fenomeno è più diffuso al sud. In Campania la percentuale di persone sovrappeso ruota attorno al 40%.

L’eccesso di peso può comportare complicanze cardiovascolari o dell’apparato muscolo-scheletrico ed è frequentemente associato a diabete, malattie del fegato, cancro o ipertensione. Il controllo del peso corporeo è quindi una necessità prima di tutto nell’ottica della tutela della salute e non solo dal punto dal punto di vista estetico.

La dieta è spesso vista come il rimedio più immediato, ma quando sortisce effetti soddisfacenti pone il problema del mantenimento della forma fisica raggiunta. Questo perché essa agisce solo su un lato del problema, trascurando i meccanismi psicologici che lo sostengono e alimentano.Si può dire che sottoporsi ad una dieta senza occuparsi di comprendere e cambiare il proprio rapporto con il cibo si rivela facilmente un inutile dispendio di energie.

Come ricorda l’Associazione Italiana Obesità, infatti, la fame è regolata da meccanismi fisiologici ben precisi che ne bloccano lo stimolo una volta che l'organismo si è nutrito a sufficienza. Quindi se si continua ripetutamente a mangiare oltre il proprio fabbisogno vuoi dire che sono subentrati dei fattori di tipo psicologico che hanno poco a che fare col bisogno reale di nutrirsi. Ricordiamo che soltanto il 5% dei casi di obesità è causata da disfunzioni di tipo ormonale.


Spesso si trascura che il rapporto col cibo è legato a complessi fattori psicologici che hanno a che fare con la storia personale, le abitudini alimentari, gli stili di vita, la dipendenza affettiva. Basti pensare a tutte le volte che si reagisce mangiando quando ci si sente soli, quando si prova tristezza, rabbia, o si avvertono stimoli corporei che poco hanno a che fare con la vera e propria sensazione di fame. In molti casi mangiare costituisce un modo per soddisfare ogni frustrazione e ogni sensazione di malessere e rabbia.

E' possibile trattare l'obesità o il sovrappeso anche con la psicologia?


Sicuramente. Nei casi di sovrappeso e obesità l’attività di sostegno psicologico mira ad aiutare la persona a diventare esperta nel controllo del proprio peso e a modificare il proprio stile di vita in modo persistente, passando per un’attenta analisi del proprio rapporto con il cibo che assume il carattere di una vera dipendenza. In questi casi il sostegno psicologico, individuale o di gruppo, può essere affiancato alla dieta in modo da agire sia sul versante alimentare che su quello psicologico.

Il trattamento psicologico dei disturbi alimentari, secondo il nostro approccio, verte sui tre poli dell’essere:

# quello comportamentale: riguarda gli stili di vita e gli stili alimentari dell’individuo, i contesti e le situazioni che più spesso agiscono da stimolo ad alimentarsi;

# quello cognitivo: riguarda l’analisi dei pensieri e delle convinzioni disfunzionali su se stessi e sul rapporto con gli altri;

# quello emotivo: riguarda l’esplorazione delle emozioni e dei vuoti che si prova a colmare con il cibo.